Dal testo di catalogo di Stefano
Taccone: «La sua antica tendenza al rifiuto non solo di
un’autorialità forte, ma proprio del lavoro artistico stesso come
atto, ridotto ad un coefficiente minimo; la figura etica e spirituale
della lacerazione sulla quale la guarigione appone il suo balsamo
chiaro conservando nondimeno la traccia dell’originaria frattura;
l’evidenziazione di ciò che non viene messo in scena, ed anzi va
occultato, eppure è l’a priori e l’a posteriori di ogni
esposizione, quasi sviluppando soluzioni prossime alla critica
istituzionale classica eppure ancora mai esplorate – si pensi in
particolare all’esposizione delle casse da imballaggio delle opere
di Marcel Broodthaers; alla tendenza ad evidenziare, tramite i loro
rispettivi strumenti, elementi dello spazio espositivo confliggenti
con l’illusione del cubo bianco tipica di Michael Asher o di Daniel
Buren o persino alle fotografie del giovanissimo Hans Haacke del
dietro le quinte della Documenta di Kassel. Segni incidentali,
involontari, inestetici, che però si incontrano in ogni contesto
espositivo che possieda un minimo di storia, che vengono assecondati
onde concorrere, attraverso il risalto luminoso del giallo, ad un
macrosistema spazio-visivo. È un paziente lavorio di riscrittura
calda del candore freddo di ogni stuccatura presente in galleria,
testimonianze inestirpabili delle opere che primamente hanno vissuto
sulle sue pareti. Ma spetta ad altri, a chiunque altro ma non
all’artista, individuarle tracciandone i limiti, mentre a Salvatore
non resta che colorare evitando di eccedere i contorni come un
bimbo».
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