mercoledì 24 aprile 2019

“Che fare ancora sulla Terra?” - osservazione di Stefano Taccone

Il giorno 17 marzo, da Milano il critico d' arte Stefano Taccone è giunto al PAN di Napoli per il finissage della mostra dal titolo "La carta della Terra" a cura di Peppe Pappa per il suo contributo attivo all'evento.




Da questa sua presenza Stefano trae alcune rifessioni conclusive che condivide con noi di rosarydelsudArt news:

“Il 2 marzo scorso si apre presso il PAN - Palazzo Arti Napoli la mostra collettiva La carta della terra, a cura dell’artista visivo Peppe Pappa, nell'ambito del progetto “mostra incontro”, giunto alla quarta edizione. Meno di due settimane dopo, in oltre 100 paesi del mondo, si tiene il cosiddetto sciopero mondiale per il futuro, ove il riferimento al tempo che verrà allude al rischio che, per la prima volta nella storia, questo potrebbe non essere più a disposizione dell’umanità di qui a poco. Da allora in poi nessuno può ancora dire «Greta chi?», benché resti sempre valido l’assunto hegeliano per il quale ciò che è noto non è necessariamente conosciuto. Solo due giorni dopo, il 17 marzo, la mostra di Pappa chiude con un finissage bipartito: dapprima gli autori dei testi in catalogo – compreso il sottoscritto – pronunciano il loro intervento; segue un reading poetico ove i riferimenti alla giustizia ambientale, oltre che sociale, sono costanti.

Quando Peppe ha cominciato a progettare questa mostra naturalmente non prevedeva che sarebbe coincisa con l’epifania di questo movimento e pertanto il dibattito del giorno di chiusura si sarebbe inevitabilmente agganciato alle impressioni, ancora calde, di due giorni prima. Non di meno è abbastanza naturale leggere tale coincidenza non come una mera casualità, bensì come l’effetto del cuore e della mente di un artista di lungo corso, che sa leggere la temperatura del momento storico – espressione che in questo frangente assume, me ne rendo conto, un doppio senso, che non intende però suggerire coloriture ironiche del tutto fuori luogo, ma rimarcare, attraverso il raddoppiamento, la felicità di una intuizione.

Detto questo, se il cinismo e il cattivismo di certe sortite è nettamente al di sotto del seriamente commentabile, neanche mi pare non solo e non tanto illecito, ma proprio inefficace rispetto al problema che si dice di avere a cuore, abbandonarsi a trionfalismi acritici, dismettendo i consueti strumenti di lettura storica di un fenomeno. Il fenomeno Greta possiede senza dubbio dei tratti inediti, tuttavia non è certamente la prima volta che qualcuno denuncia il cambiamento climatico, né tanto meno nasce con lei il movimentismo contro tale minaccia, ché usando questa parola non faccio che scegliere un eufemismo per una prospettiva drammatica - ben più, probabilmente, di quanto certe considerazioni di alcuni di coloro che sono scesi in piazza quel giorno – tra i quali, per inciso, c’ero convintamente anche io – paiano restituire l’idea. 

Ho l’età per ricordarmi le proteste – e le violente repressioni poliziesche – al COP 15 di Copenhagen. Quanti anni sono passati? Quasi dieci! Era il dicembre 2009 e qualcuno, forse incoraggiato dal fatto che tutto ciò praticamente coincideva con il decennale del movimento di Seattle – della manifestazione, con relativi scontri, contro il vertice dell’Organizzazione mondiale del commercio (OMC), quella che segna convenzionalmente l’emergere del movimento antiglobalizzazione, è di fine novembre 1999 – parlò di una sorta di Seattle verde, benché agli occhi di molti di coloro che a loro volta ricordavano quel tempo, pareva un paragone eccessivo. Non che ci sia stato a Copenhagen, ma militavo in un movimento altermondista come Attac, col quale organizzammo una serie di incontri di approfondimento sulla questione del surriscaldamento climatico, cercando di orientare il dibattito pubblico – che comunque in Italia fu quasi inesistente, essendo il nostro paese allora più impegnato a bipolarizzarsi intorno a questioni come il Lodo Alfano e storie simili – verso una chiara coscienza anticapitalista, che ci sembrava l’unica possibile per una lotta realmente fondata – e questo lo penso ancora adesso!

Non di meno alcuni compagni partirono e poi ci raccontarono. Il nodo delle nostre discussioni a posteriori fu appunto il ritardo del grado di attenzione italiano rispetto a quel movimento allora nascente, malgrado le lotte locali che, sembrando ai nostri occhi connettere in maniera soddisfacente ambientalismo ed anticapitalismo, andavano avanti da molti anni. Oggi c’è sul tappeto ancora il nodo della TAV, ma all’epoca potevamo affiancarvi anche battaglie che coinvolgevano i nostri territori, come quella contro l’inceneritore di Acerra e contro la discarica di Chiaiano, luoghi in cui ognuno di noi era stato più volte.

Il 15 marzo 2019 insomma non è certo stato l’anno zero per le lotte contro il cambiamento climatico e ancora meno per le lotte ambientaliste. Meno che mai – come pure qualche persone dalla memoria evidentemente non troppo lunga ha sostenuto – è stato un riprendersi la piazza da parte dei giovani dopo quasi vent’anni di presunta inattività, sancita dai traumi di Genova 2001. Un pensiero del genere non denota che una preoccupante, direi addirittura scoraggiante, tendenza alla rimozione. Il 2001-2003 fu definito – ovviamente facendo uso di un accostamento eccessivo, eppure comunque significativo – un nuovo biennio rosso, il biennio rosso del XXI secolo, per l’Italia. Tra il 2003 e il 2004 il movimento contro la guerra in Iraq, malgrado tutti i suoi limiti, mobilitò milioni di giovani. Il 2008 in Italia fu l’anno dell’Onda, innescata dalle proteste contro le politiche del ticket berlusconiano Tremonti-Gelmini. Il 2011 fu quello delle Primavera araba, degli Indignados e dei movimenti Occupy.

Le lotte in quest’ultimo ventennio non sono dunque mancate – né in Italia, né altrove -, né è mancata la partecipazione giovanile, benché ragionando in termini quantitativi – lasciamo stare il più controverso aspetto qualitativo – abbiano senz’altro convolto in maniera continuativa molti meno soggetti rispetto al ventennio compreso tra gli anni sessanta e settanta. L’autentico punto debole di ognuna di queste lotte è il suo non divenire quasi mai costituenti. È un dato di fatto che, di fronte alla più profonda crisi del capitalismo del dopoguerra, nessuna autentica risposta ad essa sia provenuta da qualsiasi sinistra che abbia governato – “riformista” o “radicale” che sia. Le sinistre riformiste sono state colonne portanti delle politiche di austerità, ovvero di non risposte pratiche, in quanto mere destituzioni economico-finanziarie del politico. Le sinistre radicali, anche quando sono riuscite ad andare al governo in posizioni egemoniche, hanno sostanzialmente capitolato su quegli stessi punti del programma che avevano fatto la loro fortuna, dimostrando una tragica, repentina mutazione genetica – il caso di Syriza e di Tsipras è il più eclatante, ma non è certo il solo! Tutto ciò, più che ad abbracciare una facile narrazione sui movimenti “buoni” contro i partiti “cattivi” deve appunto indurci a riconoscere il cortocircuito che si verifica nel passaggio dalla lotta al governo.
Il nuovo movimento ambientalista che riconosce in Greta la sua icona – al di là di tutte le perplessità di merito e di metodo che pure hanno fondamento; esse possono diventare un punto di forza, più che di debolezza, del movimento stesso e pertanto un movimento maturo non le bolla sempre e comunque come “sfasciste”, ma ne fa tesoro – non può che essere percepito pertanto da una persona che, come me, ha un certo vissuto ed una certa sensibilità etico-politica, come un’occasione. Ogni giovane che scende in piazza va, dal mio punto di vista, incoraggiato e, se possibile, affiancato. Tuttavia deve essere chiaro che siamo ancora ai nastri di partenza, che un grande, immenso lavoro a più livelli vi è da compiere ed il tempo non ci è amico. Una rondine non fa primavera – e neanche due, tre o quattro -: questo – tra l’altro – ci ha insegnato la parabola dei movimenti dell’ultimo ventennio. Coloro che incarnano la democrazia rappresentativa, quando va bene, si dimostrano per lo più impotenti rispetto allo strapotere delle élite globali dell’economia-finanza; quando va male – e nella maggior parte dei casi è così – essi non sono addirittura che le braccia di cervelli dai volti spesso invisibili nel grande circo mediatico e – quello che è peggio – adoperano epidermicamente il verde per colorare la loro propaganda tossica – ché più che alle tinte della natura rimanda infine tristemente alla carnagione di un ammalato! Eppure, ancora, finché siamo vivi, con Gramsci sento quasi il dovere di dirmi pessimista della ragione, ma ottimista della volontà!” (Stefano Taccone).

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