Il giorno 17 marzo, da Milano il
critico d' arte Stefano Taccone è giunto al PAN di Napoli per il
finissage della mostra dal titolo "La carta della Terra" a
cura di Peppe Pappa per il suo contributo attivo all'evento.
Da questa sua presenza Stefano trae
alcune rifessioni conclusive che condivide con noi di rosarydelsudArt
news:
“Il 2 marzo scorso si apre presso il
PAN - Palazzo Arti Napoli la mostra collettiva La carta della terra,
a cura dell’artista visivo Peppe Pappa, nell'ambito del progetto
“mostra incontro”, giunto alla quarta edizione. Meno di due
settimane dopo, in oltre 100 paesi del mondo, si tiene il cosiddetto
sciopero mondiale per il futuro, ove il riferimento al tempo che
verrà allude al rischio che, per la prima volta nella storia, questo
potrebbe non essere più a disposizione dell’umanità di qui a
poco. Da allora in poi nessuno può ancora dire «Greta chi?»,
benché resti sempre valido l’assunto hegeliano per il quale ciò
che è noto non è necessariamente conosciuto. Solo due giorni dopo,
il 17 marzo, la mostra di Pappa chiude con un finissage bipartito:
dapprima gli autori dei testi in catalogo – compreso il
sottoscritto – pronunciano il loro intervento; segue un reading
poetico ove i riferimenti alla giustizia ambientale, oltre che
sociale, sono costanti.
Quando Peppe ha cominciato a progettare
questa mostra naturalmente non prevedeva che sarebbe coincisa con
l’epifania di questo movimento e pertanto il dibattito del giorno
di chiusura si sarebbe inevitabilmente agganciato alle impressioni,
ancora calde, di due giorni prima. Non di meno è abbastanza naturale
leggere tale coincidenza non come una mera casualità, bensì come
l’effetto del cuore e della mente di un artista di lungo corso, che
sa leggere la temperatura del momento storico – espressione che in
questo frangente assume, me ne rendo conto, un doppio senso, che non
intende però suggerire coloriture ironiche del tutto fuori luogo, ma
rimarcare, attraverso il raddoppiamento, la felicità di una
intuizione.
Detto questo, se il cinismo e il
cattivismo di certe sortite è nettamente al di sotto del seriamente
commentabile, neanche mi pare non solo e non tanto illecito, ma
proprio inefficace rispetto al problema che si dice di avere a cuore,
abbandonarsi a trionfalismi acritici, dismettendo i consueti
strumenti di lettura storica di un fenomeno. Il fenomeno Greta
possiede senza dubbio dei tratti inediti, tuttavia non è certamente
la prima volta che qualcuno denuncia il cambiamento climatico, né
tanto meno nasce con lei il movimentismo contro tale minaccia, ché
usando questa parola non faccio che scegliere un eufemismo per una
prospettiva drammatica - ben più, probabilmente, di quanto certe
considerazioni di alcuni di coloro che sono scesi in piazza quel
giorno – tra i quali, per inciso, c’ero convintamente anche io –
paiano restituire l’idea.
Ho l’età per ricordarmi le proteste
– e le violente repressioni poliziesche – al COP 15 di
Copenhagen. Quanti anni sono passati? Quasi dieci! Era il dicembre
2009 e qualcuno, forse incoraggiato dal fatto che tutto ciò
praticamente coincideva con il decennale del movimento di Seattle –
della manifestazione, con relativi scontri, contro il vertice
dell’Organizzazione mondiale del commercio (OMC), quella che segna
convenzionalmente l’emergere del movimento antiglobalizzazione, è
di fine novembre 1999 – parlò di una sorta di Seattle verde,
benché agli occhi di molti di coloro che a loro volta ricordavano
quel tempo, pareva un paragone eccessivo. Non che ci sia stato a
Copenhagen, ma militavo in un movimento altermondista come Attac, col
quale organizzammo una serie di incontri di approfondimento sulla
questione del surriscaldamento climatico, cercando di orientare il
dibattito pubblico – che comunque in Italia fu quasi inesistente,
essendo il nostro paese allora più impegnato a bipolarizzarsi
intorno a questioni come il Lodo Alfano e storie simili – verso una
chiara coscienza anticapitalista, che ci sembrava l’unica possibile
per una lotta realmente fondata – e questo lo penso ancora adesso!
Non di meno alcuni compagni partirono e
poi ci raccontarono. Il nodo delle nostre discussioni a posteriori fu
appunto il ritardo del grado di attenzione italiano rispetto a quel
movimento allora nascente, malgrado le lotte locali che, sembrando ai
nostri occhi connettere in maniera soddisfacente ambientalismo ed
anticapitalismo, andavano avanti da molti anni. Oggi c’è sul
tappeto ancora il nodo della TAV, ma all’epoca potevamo affiancarvi
anche battaglie che coinvolgevano i nostri territori, come quella
contro l’inceneritore di Acerra e contro la discarica di Chiaiano,
luoghi in cui ognuno di noi era stato più volte.
Il 15 marzo 2019 insomma non è certo
stato l’anno zero per le lotte contro il cambiamento climatico e
ancora meno per le lotte ambientaliste. Meno che mai – come pure
qualche persone dalla memoria evidentemente non troppo lunga ha
sostenuto – è stato un riprendersi la piazza da parte dei giovani
dopo quasi vent’anni di presunta inattività, sancita dai traumi di
Genova 2001. Un pensiero del genere non denota che una preoccupante,
direi addirittura scoraggiante, tendenza alla rimozione. Il 2001-2003
fu definito – ovviamente facendo uso di un accostamento eccessivo,
eppure comunque significativo – un nuovo biennio rosso, il biennio
rosso del XXI secolo, per l’Italia. Tra il 2003 e il 2004 il
movimento contro la guerra in Iraq, malgrado tutti i suoi limiti,
mobilitò milioni di giovani. Il 2008 in Italia fu l’anno
dell’Onda, innescata dalle proteste contro le politiche del ticket
berlusconiano Tremonti-Gelmini. Il 2011 fu quello delle Primavera
araba, degli Indignados e dei movimenti Occupy.
Le lotte in quest’ultimo ventennio
non sono dunque mancate – né in Italia, né altrove -, né è
mancata la partecipazione giovanile, benché ragionando in termini
quantitativi – lasciamo stare il più controverso aspetto
qualitativo – abbiano senz’altro convolto in maniera continuativa
molti meno soggetti rispetto al ventennio compreso tra gli anni
sessanta e settanta. L’autentico punto debole di ognuna di queste
lotte è il suo non divenire quasi mai costituenti. È un dato di
fatto che, di fronte alla più profonda crisi del capitalismo del
dopoguerra, nessuna autentica risposta ad essa sia provenuta da
qualsiasi sinistra che abbia governato – “riformista” o
“radicale” che sia. Le sinistre riformiste sono state colonne
portanti delle politiche di austerità, ovvero di non risposte
pratiche, in quanto mere destituzioni economico-finanziarie del
politico. Le sinistre radicali, anche quando sono riuscite ad andare
al governo in posizioni egemoniche, hanno sostanzialmente capitolato
su quegli stessi punti del programma che avevano fatto la loro
fortuna, dimostrando una tragica, repentina mutazione genetica – il
caso di Syriza e di Tsipras è il più eclatante, ma non è certo il
solo! Tutto ciò, più che ad abbracciare una facile narrazione sui
movimenti “buoni” contro i partiti “cattivi” deve appunto
indurci a riconoscere il cortocircuito che si verifica nel passaggio
dalla lotta al governo.
Il nuovo movimento ambientalista che
riconosce in Greta la sua icona – al di là di tutte le perplessità
di merito e di metodo che pure hanno fondamento; esse possono
diventare un punto di forza, più che di debolezza, del movimento
stesso e pertanto un movimento maturo non le bolla sempre e comunque
come “sfasciste”, ma ne fa tesoro – non può che essere
percepito pertanto da una persona che, come me, ha un certo vissuto
ed una certa sensibilità etico-politica, come un’occasione. Ogni
giovane che scende in piazza va, dal mio punto di vista, incoraggiato
e, se possibile, affiancato. Tuttavia deve essere chiaro che siamo
ancora ai nastri di partenza, che un grande, immenso lavoro a più
livelli vi è da compiere ed il tempo non ci è amico. Una rondine
non fa primavera – e neanche due, tre o quattro -: questo – tra
l’altro – ci ha insegnato la parabola dei movimenti dell’ultimo
ventennio. Coloro che incarnano la democrazia rappresentativa, quando
va bene, si dimostrano per lo più impotenti rispetto allo strapotere
delle élite globali dell’economia-finanza; quando va male – e
nella maggior parte dei casi è così – essi non sono addirittura
che le braccia di cervelli dai volti spesso invisibili nel grande
circo mediatico e – quello che è peggio – adoperano
epidermicamente il verde per colorare la loro propaganda tossica –
ché più che alle tinte della natura rimanda infine tristemente alla
carnagione di un ammalato! Eppure, ancora, finché siamo vivi, con
Gramsci sento quasi il dovere di dirmi pessimista della ragione, ma
ottimista della volontà!” (Stefano Taccone).
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