Cartacee, alchemiche alchimie di Vega de Martini
"Sei vele nere e oro, sostenute da
sottili giunchi, come alberi di imbarcazioni leggere e veloci, si
stagliano su un fondo cartaceo denso e spugnoso, dove una serie
confusa di lettere d’oro si compone talvolta a formare parole -
viento, movimiento, espacio, amor, sinfonia de passion - che tutte
hanno a che fare con l’idea di vitalità totale. Le barche forse
solcano le acque calme di un lago sacro per compiere il cerimoniale
di iniziazione in uso nelle antiche culture meso e sud americane che
avevano il sole al centro della loro visione cosmogonica e
metafisica: l’iniziato dovrà tuffarsi al centro dello specchio
d’acqua per detergere il suo corpo cosparso in precedenza di
polvere d’oro.
L’oro in definitiva è luce ed
energia, è portatore di fecondità e abbondanza ma pure simbolo di
spiritualità e trascendenza, anche ovviamente nelle culture
dell’America centrale pre e post colombiana, Tolteca, Mixteca, di
Teotihuacan, Azteca o Maya, della regione andina in generale e
dell’Impero Inca. Culture che non possono non essere punto di
riferimento imprescindibile per Leticia Burgos, nata a Buenos Aires
ma vissuta a Mendoza ai piedi della Cordigliera delle Ande.Culture
per noi europei poco comprensibili dal momento che l’oro non venne
mai considerato, a differenza che in Europa, quale merce di scambio
ma solo e soltanto per le sue valenze simboliche.
Da sempre quindi l’umanità è stata
affascinata dall’oro , tanto da essere tentata di esperire
metodologie in grado di crearlo ex novo. Una nutrita schiera di
alchimisti e di aspiranti tali (tra cui annoveriamo personaggi di
tutto rilievo da Paracelso a Bacone, da San Tommaso d’Aquino a
Raimondo Lullo) era convinta di potere conquistare autonomamente ciò
che Mida, mitico re della Frigia,aveva ottenuto per dono. Se Mida
poteva trasmutare in oro tutto ciò che toccava, anche loro potevano
riuscire a mutare i metalli vili in quelli nobili , ed il più
nobile di tutti era appunto l’oro .Tutto ciò attraverso un
processo creativo e metamorfico reso possibile dalla mitica pietra
filosofale, la quale viene descritta dagli alchimisti come lucida,
vetrosa, fragile ma sempre diversa per quel che attiene al suo
colore: rossa, rubino scuro, gialla, del colore dello zafferano in
polvere o del papavero selvaggio, ed infine - a detta di Raimondo
Lullo- nera come il carbone . Poteva ben rassomigliare ad una pietra
di ossidiana, lucida,vetrosa,tagliente e nerissima, deflagrata dalle
viscere infuocate di un vulcano,come quella che campeggia
all’ingresso della mostra.
Una dimensione di totale creatività
contraddistingue le opere della Burgos: l’artista crea la forma ma
anche la materia di cui è costituita la sua opera. E non è cosa
consueta . La materia dunque non è in questo caso semplicemente
“quanto serve all’epifania dell’immagine”, a dirla con
Cesare Brandi(Teoria del Restauro, Torino Einaudi 1963) è essa
stessa opera d’arte, è struttura e aspetto allo stesso tempo, è
materia significante. Così il supporto dell’immaginario della
Burgos, la carta, si presenta sempre diverso, sempre nuovo, ora
sottilissimo come un velo, ora grosso e liscio o spugnoso e al suo
interno è inserita una notevole varietà di elementi materici. I
procedimenti utilizzati sono quindi complicatissimi, degni della
bottega di un alchimista. Processi mutuati da antiche culture, da
quella dell’estremo oriente,veicolata in occidente dai
conquistatori arabi, a quella egizia dei papiri che data addirittura
dalla I dinastia. A quest’ultima rimandano anche le criptiche
lettere - moderni geroglifici - che talvolta appaiono in calce
alle opere come nel caso delle Vele e di altre opere presenti in
mostra.
La tessitura fitta di trame in
metamorfosi, segni, fili, parole, lettere e criptogrammi, di girali e
campiture dorate - che può far pensare alle composizioni
geometrico fiorite dei corpi abiti di Gustav Klimt, dove l’uso
dell’oro è collegato alla pulsione di trasfigurare la realtà e
fissare l’immagine in una eterna sublime trascendenza congelata
nella perfezione e nel fulgore delle lamine del più nobile dei
metalli- le complesse simbologie che appaiono nelle sue opere, le
insistite geometrizzazioni, le sfere ricorrenti, gli intrecci
parossistici di linee ed alcune strane figure di uccelli condor,
sono chiari riferimenti ad una cultura ancestrale latino americana,
seppure decostruita.
Una simile decostruzione, ovviamente
declinata in forme e materiali diversi, caratterizza anche le opere
di un’altra artista da pochi anni scomparsa, sarda questa volta,
non argentina. “Tenendo per mano il sole” è il titolo della
grande retrospettiva su Maria Lai curata da Bartolomeo Pietromarchi e
Luigia Lonardelli allestita nel 2019 al Maxxi di Roma: la Lai tesse e
ritesse, tira ed intreccia fili di lana su vari supporti, spesso
libri o pagine scritte, inserta ricami artigianali o semplici
brandelli di stoffa, addirittura talvolta pezzi di telai,elementi
della sua cultura ancestrale. Egualmente i segni grafici della
Burgos, che si esprime essenzialmente con la tecnica della
xilografia, la collegano al filone artistico impostosi in America
latina tra il 1960 e il 1980 che, in netta contrapposizione al Pop
statunitense, è per una piena riscoperta dell’artigianato, della
manualità, delle materie naturali e per un’ampissima diffusione
dell’arte a livello popolare che appunto le tecniche grafiche in
generale consentono". (Vega de Martini).
COME DA COMUNICAZIONE RICEVUTA
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