Venticinque anni chiuso in un cassetto; questo è il destino toccato al libro che ora avete in mano.
Come si spiega una gestazione così
lunga? Cosa ha spinto l’autrice a conservare gelosamente un’opera
perfettamente compiuta per un così lungo tempo e qual è stata la
dinamica che l’ha persuasa a intraprenderne finalmente la
pubblicazione?
Molteplici sono le risposte che Rosalia D’Ambrosio
mi ha dato, ma nessuna mi ha convinta del tutto: la mancanza di
tempo, la concentrazione su altri lavori, il timore che l’argomento
non fosse interessante per i giovani lettori, così concentrati nei
loro giochi tecnologici.
Ma forse una risposta convincente c’è,
ed è questa: per una misteriosa e provvida alchimia, questo libro ha
deciso di essere pubblicato oggi perché oggi se ne ha un disperato
bisogno. Sì, questo libro ha deciso di nascere nel momento più
opportuno e più utile: oggi, Anno Domini 2021, mentre combattiamo
una difficile battaglia contro la pandemia che ha falcidiato le
generazioni più anziane, andate via portando con sé la memoria di
un tempo permeato di giochi semplici (ma non semplicistici) che erano
strumento educativo, ricreativo e collante fra le
generazioni.
Nell’anno in cui Rosalia ha redatto la stesura, il
1996, capitava ancora che i bambini giocassero nelle piazze non del
tutto sommerse da automobili o nei cortili dei condomini dove
esistevano spazi dedicati al gioco.
Esistevano ancora campetti di
calcio, pallavolo e pallacanestro improvvisati, dove i bambini
lasciavano esplodere tutta la loro energia e vitalità. Ma già
allora le cose cominciavano a mutare, il gioco di strada cominciava a
diradarsi, le paure dell’incidente, del pedofilo, dell’infreddatura
ecc. cominciavano ad assediarci e soprattutto il gioco, l’allegria,
lo stare insieme cominciavano a infastidirci. Eh sì, perché agli
inizi del nuovo secolo è comparso anche questo nuovo
fenomeno.
Ricordo ancora il mio stupore quando, nella mia funzione
di segretaria del Sindaco, cominciai a ricevere telefonate e lettere
di protesta di cittadini esasperati dalle risa argentine dei ragazzi
che giocavano in piazza della Repubblica (la piazza principale di
Eboli) o nel parco giochi alle spalle delle Scuole Elementari, o
quelle di chi protestava per qualche pallonata che aveva infranto
qualche vetro.
Dopo qualche anno cominciarono ad arrivare le
proteste perché i giochi di strada ostacolavano i parcheggi; poi
venne l’epoca dei lamenti per i parchi giochi che toglievano
preziosi spazi per parcheggiare (ancora) davanti alle scuole
elementari. Poi vennero le petizioni per abbattere gli alberi
sopravvissuti alla cementificazione dei parchi giochi. E via di
questo passo.
Parallelamente cominciò l’avanzata dei giochi
elettronici, il Nintendo, i computer domestici, internet e via di
seguito; genitori sempre più concentrati sul lavoro e sul successo
propri e dei propri figli; nonni che scoprivano le gioie della terza
età e fra laboratori di inglese, ginnastica dolce e corsi di ballo
non avevano più il tempo per giocare con i nipoti.
Ed eccolo qui
il risultato: un’intera generazione abilissima nell’uso delle più
moderne tecnologie, capace di navigare in internet e di passare
disinvoltamente da un social all’altro, con amici virtuali
sparpagliati in ogni parte del globo terracqueo ma che resta
imbambolata davanti a un bambino in carne e ossa o anche ad un foglio
di carta bianco o a un piccolo ostacolo da saltare, a cui serve un
insegnante di Scienze motorie per imparare a correre o un Logopedista
per dire uno scioglilingua.
Il libro di Rosalia arriva
provvidenzialmente a ricordare, a noi che li abbiamo conosciuti e
giocati, che con essi abbiamo riso, abbiamo pianto, ci siamo
arrabbiati, ci siamo sbucciati gomiti e ginocchia, di cui portiamo
ancora le cicatrici fisiche e psicologiche (quanto bruciano ancora
quelle sconfitte a Tamburello, quanto mi è antipatica tutt’oggi
quella ragazza che mi batteva sempre a Fiori, Frutta e Città…) una
marea di giochi che sono nati dalla quotidianità e si sono evoluti
con l’umanità stessa, che hanno forgiato migliaia di generazioni e
che hanno forgiato noi, che oggi li riscopriamo con stupore.
Con
essi l’autrice ci ripropone le “Conte” per stabilire i ruoli,
corredo indispensabile per garantire che il gioco funzioni. E ancora
tante Filastrocche, gioiose ripetizioni di sillabe e parole compiute,
sensate o meno, un susseguirsi ritmico di allitterazioni, rime,
assonanze, che vengono diritte diritte dal passato, di cui l’autrice
ci fornisce un’ampissima antologia a cui attingere per entrare in
sintonia con qualunque bambino.
Attenzione dunque: quello di
Rosalia non è un mero esercizio di memoria, né tantomeno
un’operazione Nostalgia; non è neppure una semplice raccolta di
testimonianze. Si tratta invece dell’illustrazione di pratiche
ludiche di antica tradizione, sì, ma tuttora praticabili se solo
riuscissimo a vincere la pigrizia da divano e l’ipnosi da pc.
Rosalia ce le descrive, ci spiega le regole, la dinamica del gioco,
le inserisce nel contesto in cui lei le ha conosciute, ce ne spiega,
con l’abilità divulgativa tipica di chi è padrone del proprio
mestiere (Rosalia è stata e resta un’insegnante), le funzioni
didattiche, i pregi che questi giochi hanno per lo sviluppo
psicodinamico e per lo sviluppo del senso civico.
È un libro,
dunque, che ha molto da dirci; soprattutto è un libro da tenere
sempre a portata di mano e da tirare fuori ogni volta che un bambino
“piccioso” o un ragazzo annoiato orbita dalle nostre
parti.
Proviamo a sfogliarne le pagine e a proporre una mosca
cieca, un gioco dei quattro cantoni, una palla prigioniera, una
settimana, o La gatta sale o scende? (lo dico in italiano, ma in
dialetto è tanto più efficace). Usiamo questi giochi come un
ponte provvidenziale da gettare fra noi e le generazioni nuove che ci
sembrano così lontane.
Li incanteremo, garantito.
Flavia Falcone
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