lunedì 21 ottobre 2024

Le finestre della signora Domani

Lunedì 28 ottobre  2024 a Movimento Aperto, 

via Duomo 290/c Napoli, dalle ore 17:20  

si inaugura 

Le finestre della signora Domani

una mostra di Maurizio Esposito con Carlo Bugli Giuseppe Martini, Stefano Taccone e Ferdinando Tricarico, la introduce Eugenio Lucrezi



La mostra resterà aperta fino al 18 novembre, i lunedì ed i martedì ore 17:00 - 19:00, i giovedì ore 10:30 - 12:30. 

Eventualmente su appuntamento, info: 3332229274 / 3200232065                                      
“L’artista durante un suo momento onirico consegna il titolo :Le finestre della signora Domani a quattro scrittori. Nella realtà il  sogno viene raccontato  ad ogni scrittore, che con un affaccio diverso hanno scritto un brano ,l’artista ha realizzato in opere una propria visione multimediale, dagli scritti de  ‘Le finestre della signora Domani…

Il sogno dell’artista  avrà un’appendice performativa  al Vernissage dal titolo:
“CORP( )REA – monologo inattuale”, scritto e diretto da Giuseppe Cerrone  con l’attrice Margherita Romeo Messeri “ dichiara Maurizio Esposito.

Sulle pareti  opere di Maurizio Esposito ed i quattro testi dei quattro scrittori.

“Questa esposizione accompagna il visitatore all’interno di una trama di sguardi che s’incrociano….i quali corrono tra segni semantici e segni che non ambiscono alla dignità di un significato vero e proprio. I primi si slanciano dalle scritture di quattro autori che si chiamano Carlo Bugli, Giuseppe Martini, Stefano Taccone e Ferdinando Tricarico, tutti attivi sui crinali scivolosi e incerti che separano la scrittura d’immaginazione dalla critica delle arti, la filosofia del linguaggio ordinato dalla pratica disordinata e un po’ selvaggia delle avanguardie storiche, post-moderne, postreme e postume.” scrive Eugenio Lucrezi e continua: “Gli sguardi che invece si allungano dai segni che non aspirano alla dignità di un significato provengono dalle opere di Maurizio Esposito, ch’è un artefice abituato a progettare e produrre oggetti e strutture capaci di agire per forza di aggregazione di energie anche disomogenee. Il suo è un fare che si fida dell’eventualità probabilistica, del tutto allineato alle acquisizioni della fisica quantistica e ai risultati dello strabiliante Alfred Jarry, che nel suo famigerato “ Gesta e opinioni del dottor Faustroll, patafisico” fu capace di anticiparne gli ottenimenti già sul declinare del XIX secolo. Si tratta di opere poste in cornice quasi per ridere, dal momento che non ce la fanno proprio a starsene, buone  buone, al loro posto.”

“Si tratta pur sempre di opere incorniciate e appese alla parete di uno spazio espositivo, destinate, si potrebbe dire, ad essere innanzitutto guardate. Questo è innegabile. Può darsi che lo stesso artefice, nel concepirle e nel realizzarle, abbia pensato di realizzare delle opere visive come tante altre. Ma alla fine, e per fortuna, dev’essersi reso conto di avere a che fare con delle opere-naso, e si è comportato di conseguenza. Confidando tuttavia in un pubblico pagante dotato, oltre che di nasi, di occhi, ha pensato bene di reclutare i quattro coautori scriventi di cui si è dato conto più sopra.


E’ questa, alla fine, una mostra multimediale? Senz’altro. Ma è prima un organismo eventuale, predisposto all’addizione degli sguardi, e più ancora dei fiati che si mescolano e dei nasi che a vicenda si annusano, sniffandosi con la voluttà erotica che l’arte riconosce alla vivente vita, e viceversa.” Così chiude Eugenio Lucrezi il suo acrobatico testo che sapientemente guida il lettore attraverso LE FINESTRE DELLA SIGNORA DOMANI.

 



 Le finestre della signora Domani


 Sono giorni che attendo che quelle inferriate si spalanchino. Dicono che una volta che ciò avverrà troverò pace io e troverà pace tutto il mondo. Lo spazio e il tempo avrà un valore relativo. Vivremo una condizione quasi paradisiaca. La signora Domani possiede l’antidoto ai mali che ci affliggono da ere immemorabili. Solo che, dicono, aprirà, per l’appunto, domani. Nomen omen. Il problema è che, lo si sa, il domani è inafferrabile, perché quando arriva già non è più tale. E allora è un rincorrersi illusorio, quasi beffardo. Qualora io corressi ad una certa velocità per ghermire una preda e quella preda corresse costantemente alla medesima velocità, potrei anche essere separato da essa da soli dieci centimetri, ma non ridurrei mai quel gap, resterebbe tale in eterno.
    Fossero almeno inferriate con ampi spazi vuoti. Potrei intuire qualcosa, o almeno provarci, attraverso le finestre. Magari aiutandomi con un binocolo, tipo La finestra sul cortile. Però tutto ciò non sarebbe socialmente ben visto da chi scorgerebbe me che guardo. E la stessa signora Domani potrebbe risentirsi e non aprire più. Allora io avrei combinato un guaio di dimensioni cosmiche. Dicono che tutta la creazione geme nelle ansie dell’attesa di questo colpo di mondo. D’altra parte, qui pare che l’unico che si preoccupi davvero di ciò sono io. Sono tutti fin troppo pazienti. Tutti fin troppo pronti a puntare il dito verso le mie insofferenze. Sarà che io sono un uomo di poca fede e loro ne hanno assai più di Pietro che camminava sulle acque, tanto da non affondare, ma incedere placidi come su pascoli erbosi?
    E se la signora Domani mi leggesse nel pensiero e la stessi infastidendo non poco? Se sentisse la mia ossessione mentale sul collo e dunque il guaio cosmico sarebbe già mezzo compiuto? Se questo fosse vero, presto i miei prossimi si organizzerebbero per vendicarsi. Non lascerebbero impunita questa mia leggerezza. La giudicherebbero un grave atto di empietà. E riterrebbero imprescindibile il sangue, onde rimarginare questo cocente vulnus. Potrebbero persino essere già in procinto di farlo.
    E se invece le cose stessero in maniera completamente opposta? Se, cioè, il domani della signora non arrivasse proprio perché sente attorno a lei troppo rispetto e pazienza e teme che tutto ciò celi piuttosto una sorta di indifferenza? Chi ci assicura, insomma, che la signora Domani non si sia risentita per il nostro atteggiamento di sufficienza, che abbia subodorato la nostra noncuranza, se non proprio il nostro scetticismo? Se avesse avvertito che non crediamo fino in fondo alla sua promessa? Se avesse pensato che, nel profondo, per noi non è che una mezza pazza esaltata? Allora che colpa ne avrei io, che credo di crederci più di tutti? Forse per questo, paradossalmente, vorrebbero eleggermi a capro espiatorio? Servo a lavare le loro coscienze di miscredenti?
    Cerchiamo di ragionare freddamente. La signora vive sola e non è più propriamente nel fiore degli anni. È da tempo immemorabile che non esce di casa e neanche apre le finestre. Tanto per cominciare l’appartamento sarà pieno di muffa e lei bianca come un cencio, dal momento che, così barricata, non può lambirla neanche un frammento di rifrazione solare. Inoltre, quante provviste di cibarie ed altri oggetti per soddisfare i bisogni primari può possedere prima di essere costretta a scendere per un po’ di spesa? Del resto, lei non scende, ma neanche se la fa portare a domicilio. Come ci si comporterebbe in tal caso, in situazioni normali? Come agirebbe un vicino di casa con la testa sul collo? Andrebbe a bussare alla porta o almeno al citofono, per sincerarsi della sua salute. Ma con questa strana narrazione per cui se non si attenderanno i suoi tempi tutto si dissolverà, un po’ come la vicenda di Orfeo cui è proibito voltarsi indietro per contemplare il volto di Euridice prima che entrambi siano pienamente fuori dal dominio dell’Ade, sembra impossibile optare diversamente. Se ci provassi, tutto il vicinato mi salterebbe addosso per impedirmelo. O no?
    Di notte è sconsigliabile. Potrebbe non dare segni di vita semplicemente perché addormentata. E a quella età non si dorme molto, ma neanche si sente troppo bene. Vado ora: in pieno giorno, in piena luce. Aspettare ancora non avrebbe senso. Vivrei l’attesa solo con inquietudine, tanto non c’è un momento più propizio se la notte è indisponibile. La sera? Ma potrebbe temere che sia un malintenzionato e non aprire. Così rimarrei nel mio loop infernale. Sto andando. Nessuno – apparentemente - mi vede e nessuno mi ostacola. Avrò scelto, con un po’ di fortuna, il momento propizio. Il portone è aperto. Arrivo al terzo piano. Non posso sbagliare: c’è la targhetta sulla porta! Premo il tasto del campanello. Un gran rumore, ma per il resto non si ode foglia muoversi. Aspetto trenta secondi, e poi premo di nuovo. Stesso esito per i venti secondi successivi, dopo di che premo per la terza volta. Aspetto pochissimi secondi e premo per la quarta volta, ma questa volta non è un tocco fugace: tengo premuto ininterrottamente, al fine di abbattere ogni durezza d’orecchi possibile. Ma niente.
    Cosa si pensa immediatamente quando ci sono tutti i presupposti di cui sopra? Si chiamano i parenti per chiedere se per caso non è a casa loro? Ma la signora Domani ha parenti? Non ne conosco l’esistenza; figuriamoci i numeri di telefono o i contatti social. Amiche, amici o amichə? Peggio che se fossi andato a bussarle di notte. Si lascia perdere? Sarebbe una non soluzione. Si chiama il fabbro per aprire la porta e vedere se c’è ancora? Ma potrebbe essere un atto eclatante quanto disastroso. Potrei persino essere incriminato per violazione di domicilio. Si chiama la polizia, i carabinieri ed altri omuncoli in divisa? L’idea mi ripugna alquanto, e per tanti motivi.
    Ma poi se chiamo il fabbro ci viene? Ci viene se lo pago bene? Ricordo di avere un amico folle e geniale che sa fare tutto: riparare il motore di una automobile e scrivere una poesia alla Georges Perec, sturare una tazza del water ed edificare un appartamento che sembra piccolissimo ma in realtà è enorme, perché le stanze che si susseguono l’una dopo l’altra sono ben nascoste. Chiamo lui e gli chiedo anche un consiglio. Anche lui potrebbe dirmi che sono folle e farmi persino una ramanzina. Invece non solo mi dice che viene – del resto la follia ci amica da tempo -, ma anche che bisogna varcare quella porta. Ci vuole un po’ di umanità! D’altra parte lui pure è scettico sugli sbirri. Va a finire che, come nel Pinocchio di Collodi, per andare a denunciare un problema ti ritrovi tu col problema di essere sbattuto dentro.
    Arriva coi suoi attrezzi del mestiere, ma scopre subito che è più semplice di quanto potessimo immaginare. La porta è stata solo tirata, senza chiuderla a chiave, per cui basta infilare una radiografia nella serratura ed inclinarla per farla entrare nell’ultimo cilindretto. «L’ultimo cilindretto è tagliato a 45 gradi; ecco perché la fotografia è stata in grado di spostarlo e la porta di aprirsi», mi spiega. Ma io lo ascolto a stento, giacché ora mi assale una paura terribile. Comincio a tremare come i rami spogli di un albero al vento d’autunno, mentre continua a sorprendermi la desertificazione che vive il mio circondario da quando ho preso la decisione di recarmi per la prima volta presso la porta della signora Domani. Pare che siano caduti tutti in un sonno profondissimo. Tanto più strano perché il sole splende, cuoce e invita ad aprire le finestre e a prendere aria.
    Già, l’aria. Appena si è aperta la porta abbiamo cominciato ad avvertire un non meglio identificato fetore. Gli faccio segno non di abbassare la voce, ma proprio di zittirsi. Immaginiamo di avere l’ovatta sotto i piedi e ci addentiamo nella oscura dimora che dovrebbe – avrebbe dovuto – partorire il domani, mentre l’odore nauseante cresce minacciosamente e quasi ci conduce nel luogo che custodisce la chiave che apre ben più di una porta. Distesa sul suo letto c’è lei, la signora Domani. I suoi capelli sono bianchi e riccioluti come le nuvole di un cielo che si prepara a piovere a catinelle. Ma ormai né pioggia, né neve, né terremoti, né eruzioni possono più nulla contro di lei. Il suo corpo è già in fase di decomposizione, la pancia è gonfia. Il domani della signora ormai è già sorto altrove. Il suo destino non ha più nulla a che vedere con le sue finestre. Lo spazio e il tempo, almeno per lei, non hanno più alcun valore. Chissà se, almeno lei, ora vive una condizione paradisiaca.

Stefano Taccone


 

Le finestre della signora Domani

 
Ed io mi domando: "Su quante finestre ha il dominio la signora Domani? Certo, come i possibili, questi varchi rampollano una dall’altro verso mete inusitate.
 
 In una delle finestre, come Molly Bloom, in amplesso con Poldy, la signora  deve proiettare zone d’ombra e feromoniche attese….e certo questa non verrà meno ai possibili: ovvero, la sculettante Signora delle finestre, come la cretese Signora delle Belve o del labirinto, a seno scoperto, affacciata ai molti varchi del Palazzo, in attesa del despota paredro.
 
 Ma sono possibili, se si parla di Domani, cioè se si è intrigati nel tempo, anche scherzose retrogressioni…ecco Lucy, che ostenta le sue scheletriche anche di bipede incerto, alle molte finestre, che archeologi folli aprono nei fianchi larghi della grande Signora.  
 
In fine, ti faccio una confidenza, ti dico un segreto: domani, ho un appuntamento con la signora Domani, mi attende ad una delle sue finestre… domani, forse."
 

Carlo Bugli

 

 

Le Finestre della Signora Domani


Le finestre della signora Domani sono sempre aperte per il non vivente, sbattono al vento del farò, sarà, accadrà; abbagliano di luce potenziale, d’apparenze vertiginose, d’impieghi nullafacenti. Le finestre della signora Domani invecchiano nel lento scorrere dei giorni tutti uguali, nel desiderio spento, nel piacere imbottigliato. I vetri non s’incrinano, l’alito non le opacizza, l’aria frizzante illude, la bruma bassa deprime, il freddo e il caldo concludono stagioni mai cominciate. Le finestre della signora Domani sono state l’infisso fisso della signorina Speranza, la chiusura della paura, il passato non passato. Dalle finestre della signora Domani si gode lo spettacolo del niente, se ne sentono tante tranne il suono del presente.


Ferdinando Tricarico

 


Questa esposizione accompagna il visitatore all’interno di una trama di sguardi che s’incrociano; ma l’esperienza percettiva dell’ospite non si esaurisce con l’eccitazione dei coni e dei bastoncelli retinici. Come vedremo tra poche righe, ad essere coinvolti saranno anche dei glomeruli (che non sono renali), delle mitre (che non sono vescovili), dei bulbi (che non sono di garofano) (per non fare il misterioso: l’apparato olfattivo. Che nel sapiens sapiens è poi un marchingegno abbastanza rozzo, un meccano quasi ridicolo, al cospetto degli stupefacenti nasi di un gran numero di altre specie viventi).
Ma torniamo agli sguardi che s’incrociano, i quali corrono tra segni semantici e segni che non ambiscono alla dignità di un significato vero e proprio. I primi si slanciano dalle scritture di quattro autori che si chiamano Carlo Bugli, Giuseppe Martini, Stefano Taccone e Ferdinando Tricarico; tutti attivi sui crinali scivolosi e incerti che separano la scrittura d’immaginazione dalla critica delle arti, la filosofia del linguaggio ordinato dalla pratica disordinata e un po’ selvaggia delle avanguardie storiche, post-moderne, postreme e postume. Facendo il verso a Totò il Grande, direi che la somma di questi scritti risulta nel totale coacervo del miscuglio: un cocktail non shakerato di epigrammistica, racconti “pulp”, sogni surrealisti e treni che deragliano con voluttà e senza ritegno. Un intruglio, un’accozzaglia di scritture irridenti e meccaniche come di automa, insomma; automatiche e semiautomatiche come pistole variamente capaci di fare fetecchia e di esplodere colpi mortali.  
Gli sguardi che invece si allungano dai segni che non aspirano alla dignità di un significato provengono dalle opere di Maurizio Esposito, ch’è un artefice abituato a progettare e produrre oggetti e strutture capaci di agire per forza di aggregazione di energie anche disomogenee. Il suo è un fare che si fida dell’eventualità probabilistica, del tutto allineato alle acquisizioni della fisica quantistica e ai risultati dello strabiliante Alfred Jarry, che nel suo famigerato “Gesta e opinioni del dottor Faustroll, patafisico” fu capace di anticiparne gli ottenimenti già sul declinare del XIX secolo. Si tratta di opere poste in cornice quasi per ridere, dal momento che non ce la fanno proprio a starsene, buone buone, al loro posto.
Questa esposizione, in tutta evidenza, addirittura non esisterebbe se le sue opere non si sporgessero nello spazio, protendendosi in avanti dalle cornici che a fatica le tengono come nasi che fiutano l’aria che nella sala espositiva si riposa, e ogni tanto l’odore degli spettatori, ciascuno dei quali dotato a sua volta di naso, che l’esposizione si trovano a visitare. Nessuno di tali visitatori, passando in rassegna le opere e i loro nasi, si astiene dal respirare: si tratta di persone, senza eccezione, viventi, alcune più attente e determinate a “interagire” con i quadri, altre, magari, più distratte e svogliate.  C’è da presumere che la maggioranza di loro neanche si accorga di avere a che fare con opere dotate di naso, che la nasità sia addirittura la loro principale caratteristica, la prima delle attitudini relazionali che l’artefice e inventore ha avuto la bontà di concedere loro; l’attributo della nasità – a ben vedere, o sniffare – è, anzi, niente di meno della loro unica possibilità di esistere nel mondo al di fuori dell’ottusa autosufficienza della monade, che per suo conto né si estroflette né s’introflette, bastando a sé stessa perfettamente.
Si tratta pur sempre di opere incorniciate e appese alla parete di uno spazio espositivo, destinate, si potrebbe dire, ad essere innanzitutto guardate. Questo è innegabile. Può darsi che lo stesso artefice, nel concepirle e nel realizzarle, abbia pensato di realizzare delle opere visive come tante altre. Ma alla fine, e per fortuna, dev’essersi reso conto di avere a che fare con delle opere-naso, e si è comportato di conseguenza. Confidando tuttavia in un pubblico pagante dotato, oltre che di nasi, di occhi, ha pensato bene di reclutare i quattro coautori scriventi di cui si è dato conto più sopra.
È questa, alla fine, una mostra multimediale? Senz’altro. Ma è prima un organismo eventuale, predisposto all’addizione degli sguardi, e più ancora dei fiati che si mescolano e dei nasi che a vicenda si annusano, sniffandosi con la voluttà erotica che l’arte riconosce alla vivente vita, e viceversa.

Eugenio Lucrezi 

COME DA COMUNICAZIONE RICEVUTA

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